danno da demansionamento

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marco panaro
00martedì 3 ottobre 2006 21:50
Cassazione Sezione Lavoro n. 20616 del 22 settembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Celentano

Pietro S., già dipendente della S.p.A. Centro Sviluppo Materiali, ha chiesto, tra l’altro, al Pretore di Genova, nel maggio del 1995, di condannare l’ex datrice di lavoro al risarcimento del danno da demansionamento, sostenendo di essere stato mantenuto, nell’ultima fase del rapporto, in condizioni di forzata inoperosità, in violazione dell’art. 2103 cod. civ.. Questa domanda è stata rigettata dal Pretore ed invece accolta, in grado di appello, dal Tribunale di Genova che ha condannato l’azienda al risarcimento del danno da demansionamento in misura pari alle retribuzioni relative al periodo dal 1 gennaio al 15 settembre 1994. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che il Tribunale aveva erroneamente ravvisato, nel demansionamento, un danno “in sé” mentre, avrebbe dovuto accertare se effettivamente tale danno si fosse verificato, ponendo a carico del lavoratore il relativo onere probatorio. Queste censure sono state ritenute fondate dalla Suprema Corte che, con sentenza n. 9628 del luglio 2000, ha cassato sul punto la decisione del Tribunale di Genova ed ha rinviato la causa, per nuovo esame, al Tribunale di Savona, enunciando, per il giudice del rinvio, il principio che “il danno da demansionamento non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro, ma deve essere oggetto di allegazione e prova secondo i principi generali di cui all’art. 2697 cod. civ.” (principio recentemente ribadito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 6572 del 24.3.2006).

Il Tribunale di Savona, in grado di rinvio, con sentenza del febbraio 2003, ha accertato ricorrendo a presunzioni, il danno da demansionamento subito dal dirigente ed ha condannato l’ex datrice di lavoro al risarcimento del relativo danno. In proposito il Tribunale ha così motivato la sua decisione: “In applicazione del principio di diritto sancito dalla Corte, secondo cui il danno da demansionamento non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro ma deve essere oggetto di allegazione e di prova secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c.c., ritiene il Collegio che tale prova sia stata effettivamente raggiunta, quantomeno in via presuntiva, sulla base del complesso univoco e convergente delle risultanze acquisite in merito alla natura, alla portata e alla durata della dequalificazione subita nonché alle specifiche caratteristiche soggettive del lavoratore (Cass. 15868/2002, Cass. 13580/2002).

E’ un dato infatti ormai incontrovertibile che Pietro S., all’epoca quarantatreenne titolare di una posizione dirigenziale di vertice all’interno della società quale responsabile dell’Ente attuazione progetti speciali e già responsabile sino a pochi mesi prima anche dell’Ente Sistemi di Funzionamento che operava alle dirette dipendenze dell’Amministratore Delegato, professionalmente stimato ed apprezzato da tutti (cfr. teste P. P., amministratore della C.S.M. dal 1989 all’aprile 1993), a partire dall’inizio del 1994 venne di fatto esautorato dall’incarico e posto in una condizione di totale inattività prima di essere licenziato in data 15.9.1994. Il carattere totale (“rimase senza far nulla”) e repentino della privazione di qualsiasi mansione nei confronti di un dirigente in posizione di vertice e nel pieno della carriera professionale – privazione protrattasi per oltre otto mesi e tale da paralizzare totalmente l’esercizio dei poteri e delle competenze sino a quel momento impiegati nello svolgimento dell’attività lavorativa, in patente violazione dei doveri di tutela della professionalità di cui all’art. 2103 c.c. – non può non avere cagionato al lavoratore, secondo l’id quod plerumque accidit, un’apprezzabile lesione al prestigio professionale di grado elevato inerente la posizione dirigenziale rivestita all’interno dell’ambiente di lavoro ed alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (Cass. 10/2002, 1443/2002) esigenza assolutamente frustrata nel caso di specie. Sulla scorta degli elementi evidenziati deve dunque ritenersi accertata la sussistenza di un danno da demansionamento nella componente lesiva di un danno alla professionalità, quale bene immateriale inerente all’esplicazione dei diritti della personalità sul luogo di lavoro, dovendo invece essere esclusa la ricorrenza di distinte componenti di carattere immediatamente patrimoniale, quali la perdita di concrete chances di progressione lavorativa e di concorrenzialità sul mercato del lavoro, che, al pari delle ulteriori lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore, avrebbero dovuto essere specificamente provate dal lavoratore”. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che il Tribunale di Savona si era discostato dal principio stabilito dalla Suprema Corte nella sentenza n. 9628 del 2000, avendo raggiunto la prova del danno in base a considerazioni di carattere generale.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20616 del 22 settembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Celentano) ha rigettato il ricorso, rilevando che il Tribunale di Savona ha applicato correttamente i principi stabiliti da Cass. n. 9628/2000. I giudici di rinvio – ha osservato la Corte – hanno affermato che la condizione di inattività lavorativa, nella quale era stato posto Pietro S., non poteva non avere cagionato al lavoratore, secondo l’id quod plerumque accidit, un’apprezzabile lesione al prestigio professionale inerente la posizione dirigenziale rivestita e alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo; hanno quindi ricavato la sussistenza del danno al prestigio professionale ed alla dignità del lavoratore da una ritenuta regolarità causale fra demansionamento, nella specie particolarmente rilevante, e conseguenze dello stesso in ambito lavorativo per quanto concerne, appunto, prestigio professionale e dignità. Questa motivazione – ha affermato la Corte – è corretta e tiene conto dei principi di diritto affermati nella sentenza rescindente; né sussiste contraddizione fra l’affermazione di un danno da demansionamento, nella componente lesiva di danno alla professionalità, quale bene immateriale inerente all’esplicazione dei diritti della personalità sul luogo di lavoro, e l’esclusione di altri danni, come la perdita di chances di progressione lavorativa o di concorrenzialità sul mercato del lavoro, o altre e diverse lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore.
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