Euforia, coraggio, rinascita; i segreti del primo discorso
Alle 8 del mattino del 20 gennaio 1981, Ronald Reagan ancora dormiva nella master suite della Blair House. «Mi devo proprio alzare?», disse come sempre in vena di scherzi al suo consigliere Michael Deaver, preoccupato che il presidente-eletto fosse in ritardo al giuramento e accorso a dirgli che doveva uscire da sotto le coperte. Poco più tardi, seduto accanto a Jimmy Carter sulla limousine che li portava a Capitol Hill, Reagan cominciò a raccontargli aneddoti di Hollywood, facendosi un sacco di risate mentre quello lo guardava stralunato. Ore dopo, la notizia che gli ostaggi iraniani erano stati liberati poneva il marchio della fortuna sulla nuova presidenza. La sera, epitaffio agli anni carteriani parchi e un po’ tristanzuoli, Dean Martin, Frank Sinatra e altre vecchie glorie hollywoodiane diedero ai festeggiamenti dell’inaugurazione il colore edonistico della nascente era reaganiana.
Dimmi che inaugurazione fai e ti dirò che presidente sei. Con poche eccezioni, la teoria che il tono, lo stile e perfino la sorte di una presidenza americana si vede dal mattino, ha ricevuto parecchie conferme empiriche negli oltre duecento anni dell’istituzione. Ecco perché il racconto, le parole, le immagini e le suggestioni di quanto succede oggi nella capitale americana possono offrirci importanti indicazioni per il futuro. È vero almeno dal 1829, quando Andrew Jackson, il presidente della frontiera, padre del populismo ed eroe della battaglia di New Orleans, dovette essere portato via sotto scorta dalla Casa Bianca: dopo un giuramento di rara solennità, una massa di popolo entusiasta, di ogni ceto e ogni colore, aveva letteralmente invaso l’edificio, calpestando ogni cosa, ubriacandosi con ettolitri di punch, rompendo bicchieri e piatti, salendo sulle sedie con gli stivali infangati.
La combinazione di seria grandeur e caos passionale che ne segnò l’esordio, fu la stessa che avrebbe accompagnato gli otto anni di Jackson. Anche Abraham Lincoln, il riferimento più ricorrente di Barack Obama, non sfugge alla regola. Il suo destino era tutto contenuto nei giorni dell’inaugurazione: c’era un piano per assassinarlo a Baltimora, al punto che dopo un viaggio simbolico di due settimane, arrivò a Washington quasi di nascosto. L’omicidio sarebbe arrivato, ma cinque anni dopo. E sin dal suo discorso iniziale, fu chiaro che sarebbe stata la lotta per tenere insieme e salvare l’Unione, il tema dominante del suo mandato.
Ancora, fu chiaro già da quel gennaio del 1933 che Franklin D. Roosevelt si sarebbe calato nel ruolo di padre della nazione. Dopo aver evitato ogni associazione col suo predecessore, Herbert Hoover, Roosevelt offrì al Paese parole di conforto e ragioni di speranza, anche se in quel momento non aveva alcuna idea di come e verso quale direzione avrebbe condotto l’America fuori dall’abisso della Grande Depressione. Ma la frase «l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa», diede coraggio e motivazioni a un popolo in ginocchio. Per contro, la dimessa quarta e ultima inaugurazione di Roosevelt fu anche il presagio della fine: già malato, non andò al Congresso, giurò sul South Portico della Casa Bianca, offrì agli invitati insalata di pollo con poco volatile e morì tre mesi dopo. E c’era in nuce tutta la mistica della Nuova Frontiera, il passaggio della «torcia a una nuova generazione di americani», nell’immagine di John Fitzgerald Kennedy, che nel gennaio 1961 giurò e pronunciò il suo discorso senza cappotto nel gelo di Capitol Hill, mentre il suo predecessore, il vecchio generale Dwight D. Eisenhower, lo guardava un po’ indispettito e fasciato in cammello doppiopetto e sciarpa. Eppure, anche nel discorso di Kennedy, si annunciava nascosta la tragedia: «Non ce la faremo in cento giorni, né in mille giorni, né nei quattro anni della mia Amministrazione. Ma intanto cominciamo». Durò soltanto mille giorni, appunto. Ma come dice suo fratello Ted, «la speranza vive e il sogno non muore mai».